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I batteri e le patologie infettive

I batteri e le patologie infettive
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C’è qualcosa di invisibile, eppure mortale, che ci circonda costantemente, che tenta di attaccarci da ogni direzione, che permea tutto il pianeta e che, anche se sembra strano, è indispensabile per completare il ciclo vitale per come noi lo conosciamo.

Esseri microscopici, talmente piccoli da potersi agevolmente infilare di soppiatto dentro il nostro corpo, penetrando dentro i nostri organi e causandoci orribili e mortali patologie.

Ma anche, essenziali per la nostra sopravvivenza, in quanto capaci di sintetizzare per noi quello che il nostro metabolismo non riesce a produrre (ad esempio, le vitamine).

Fermentano il vino, ci decompongono quando siamo morti e, alcuni di loro, producono anche molto dell’ossigeno che respiriamo.

Esatto, sono i batteri: minuscoli esseri unicellulari che possono essere i nostri nemici più micidiali, oppure i nostri più validi alleati, a seconda della situazione.

La lunga strada che ha portato alla loro scoperta è veramente tortuosa e, come spesso accade nella scienza, quasi totalmente casuale.

È tempo di entrare nel mondo dell’infinitamente piccolo, a caccia della forma più semplice, ma non per questo meno efficace, della vita.

Buona lettura!

When disco spreads like a bacteria / Those lonely days are out!

Cosa sono i batteri?

I batteri e le patologie infettive

I batteri sono dei microscopici organismi viventi, unicellulari, che rappresentano la più semplice forma di vita conosciuta.

Anche se composti da una sola cellula, sono dei veri e propri esseri viventi, in quanto sono capaci di compiere un pieno ciclo vitale: nascono, si riproducono, si adattano all’ambiente circostante e sono suscettibili al processo dell'evoluzione.

E sì, come tutti gli altri esseri viventi, muoiono.

Fanno parte del grande regno Bacteria, che a sua volta compone l’ancora più vasto dominio dei procarioti.

Essendo di dimensioni piccolissime (dagli 0,2 ai 20 micrometri) sono invisibili ai nostri occhi, perciò possiamo sperimentarne solo gli effetti.

E gli effetti li conosciamo molto bene, sia quelli benevoli (i batteri della flora intestinale, il concime per la terra, la fermentazione alcolica, ecc.) che quelli malevoli (le infezioni e le patologie).

Fino all’avvento degli antibiotici, le infezioni batteriche erano la prima causa di morte nel mondo, assieme alle spesso correlate infezioni virali.

Tutt’ora, le patologie che causano i batteri sono tra i pericoli più grandi per molti esseri viventi, animali e piante compresi.

Una sola cellula, ma basta ed avanza

Essenzialmente, gli esseri viventi si dividono in due grandi domini, a seconda della loro struttura cellulare: procarioti ed eucarioti.

Gli eucarioti, come l’essere umano, le piante, i funghi e gli animali, sono organismi che presentano strutture mono o pluricellulari, ma basate comunque su cellule contenenti un nucleo interno, in cui è racchiuso il genoma (DNA).

Sono organismi solitamente complessi, specie quelli pluricellulari: il genoma è ben protetto da una robusta membrana nucleare, che lo separa da tutto il resto della cellula, e spesso sono presenti strutture di supporto come i mitocondri, in grado di fornire energia alla cellula stessa attraverso complesse trasformazioni chimiche (respirazione cellulare).

I batteri e le patologie infettive

Gli organismi procarioti, invece, presentano cellule molto più semplici: il nucleo non esiste, ed il genoma (DNA) è libero di vagare nel citoplasma cellulare, contenuto da una (o più) solide membrane cellulari.

I procarioti possono avere svariate forme, da quella quasi perfettamente rotonda a bizzarre forme ‘a molla’, ma sono comunque in grado di riprodursi per scissione binaria e assorbire il nutrimento che serve alla loro esistenza attraverso la loro membrana.

Solitamente, i batteri non si presentano mai singolarmente, ma vivono tutti assieme in grande numero: tali assembramenti sono chiamati colonie.

Per capire le quantità e le dimensioni: una piccola manciata di comune terriccio da giardino contiene svariati milioni di batteri!

Specializzati nel sopravvivere

I batteri sono una forma di vita di grande successo, specialmente perché riescono a vivere e adattarsi in quasi ogni ambiente conosciuto: nell’acqua, nei deserti, al freddo, al caldo… Persino dentro il corpo degli altri esseri viventi.

Alcuni di loro necessitano di ossigeno per vivere (batteri aerobi), altri ancora invece non necessitano di ossigeno, che anzi per loro è un veleno (anaerobi obbligati), mentre altri possono essere anaerobi o aerobi a seconda delle esigenze.

Sono piccoli, ma sono di moltissime specie anche molto differenti tra di loro: fino ad adesso ne sono stati scoperti circa 4000 specie, ma sicuramente ce ne sono molti di più.

I batteri e le patologie infettive

Come qualsiasi altro essere vivente, anche i batteri necessitano di convertire energia per sopravvivere.

Alcuni di loro riescono a convertire autonomamente l’energia che gli occorre per sussistere prendendola dalla luce solare e dai minerali che trovano nell’ambiente circostante, un po’ come le fanno le piante con la fotosintesi clorofilliana.

Questi batteri sono chiamati autotrofi, e sono fondamentali per l’esistenza stessa di tutto l’ecosistema terra per come noi lo conosciamo: nel loro processo di fotosintesi, esattamente come le piante producono come scarto l’ossigeno.

Una particolare categoria di batteri autotrofi, chiamata cianobatteri, vive regolarmente negli oceani, e rappresenta la più grande fonte di produzione d’ossigeno del pianeta (ben più delle foreste!).

I batteri che non possono produrre energia autonomamente, convertendola da altre fonti, necessitano di prenderla chimicamente da altri esseri viventi, animali o vegetali.

Questi batteri sono detti eterotrofi, e sono particolarmente pericolosi per uomini, piante ed animali, poiché quasi tutti provocano le malattie infettive: si annidano nei corpi degli ospiti e lì predano i nutrimenti di cui hanno bisogno, danneggiandoli.

Alcuni batteri sono ghiotti di zuccheri, che trovano in grandi quantità, ad esempio, nella nostra bocca: sono i residui del nostro cibo, che attirano perennemente un’enorme quantità di batteri, che forma la famosa placca (pericolosa, poiché porta alla putrefazione dello smalto dei denti, e causa infiammazioni al tessuto del paradonto).

Altri batteri golosoni dello zucchero, stavolta però nostri amici, sono quelli che vivono nel nostro intestino, in simbiosi con noi: compongono la flora intestinale, che ci aiuta a sbarazzarci degli zuccheri in eccesso e a ricevere, come prodotto di scarto della loro ‘pappata’, preziose vitamine che il nostro corpo non riesce a produrre autonomamente.

Altri batteri, importantissimi nel ciclo vitale degli esseri organici, invece si nutrono dei resti di animali o piante morte.

Sono i batteri saprofiti, gli ‘spazzini del mondo’, in quando scompongono ciò che era vivente e danno luogo al processo di decomposizione post-mortem, rilasciando nell’ambiente sostanze semplici che altri organismi (come le piante) possono riutilizzare e continuare un nuovo ciclo vitale.

Insomma, ci sono batteri in grado di fare praticamente qualsiasi cosa, che si sono adattati a qualsiasi situazione o condizione, e lo fanno ormai da milioni di anni… Dall’inizio della vita su questo pianeta.

Tante forme, tante specie

I batteri e le patologie infettive

Anche se esseri molto semplici (ma, come abbiamo visto, comunque di successo), i batteri possono prendere svariate forme a seconda della specie.

Tutti hanno una caratteristica comune: sono sempre unicellulari procarioti, anche se di dimensione e forma differenti.

Ci sono i batteri quasi perfettamente sferici (i cocchi, come il famoso staffilococco che adora annidarsi nei pori della nostra pelle, causando i brufoli), quelli cilindrici (i bacilli), quelli a forma ‘a molla’ (spirochete), quelli ondulati (spirilli) e quelli fatti quasi ‘a virgola’ (i vibrioni).

Alcuni batteri sono immobili, come i cocchi: non sono dotati di strutture di movimento, e quindi si lasciano ‘trasportare’ dal vento o dal contatto con altri esseri viventi.

Altri ancora, possono muoversi autonomamente, grazie a piccole appendici proteiche presenti sulla loro capsula protettiva (i flagelli e i pili).

Altri ancora si muovono caricandosi e rilasciandosi, proprio come una molla.

Per millenni, nemici invisibili e letali

Come qualsiasi altro essere vivente pluricellulare, l’essere umano è stato flagellato dai batteri sin dalla sua comparsa sul pianeta.

Abbiamo testimonianze dirette, lasciateci dai nostri antenati, di patologie di origine batterica che hanno sterminato milioni e milioni di uomini, piante ed animali.

E abbiamo anche testimonianze indirette, ricavate dalle analisi dei fossili, che dimostrano che la teoria che vuole i batteri come prime forme di vita in assoluto sia senza dubbio veritiera.

Le più grandi sciagure sanitarie della storia umana sono attribuibili ai batteri, che se la giocano con i virus per il podio di ‘sterminatore numero uno’ dell’Homo Sapiens.

I batteri e le patologie infettive

Ma perché noi esseri umani siamo così ‘appetitosi’ per i batteri?

Essenzialmente, perché siamo organismi complessi, onnivori, con tanti organi e un sistema generale (il nostro corpo) in cui il batterio può trovare pressoché qualsiasi cosa ha bisogno: nutrimento, energia, protezione.

Il nostro corpo è dotato di un efficientissimo ‘sistema di protezione’ (il sistema immunitario), formato da molecole, cellule e strutture apposite per aggredire immediatamente qualsiasi corpo estraneo o elemento non riconosciuto.

Il problema è che spesso, molti batteri ci attaccano in enorme quantità, milioni e milioni, invadendo e moltiplicandosi all’infinito.

Con le condizioni giuste (principalmente, col nutrimento giusto) una piccola colonia batterica può moltiplicarsi a milioni in pochissime ore, dando così origine ad un’infezione estesa.

Questo, a volte, mette in crisi il nostro sistema immunitario, che spesso è sopraffatto dalla minaccia e non riesce ad uccidere per tempo il nemico e a sterminarlo prima che esso si sia già riprodotto.

Quando l’infezione incontrollata si propaga in tutto il corpo, o buona parte di esso, da origine ad una patologia, con la comparsa di caratteristici sintomi.

Nel corso dei secoli, l’uomo ha dovuto costantemente scontrarsi con ogni genere di batterio, che spesso lo ha contagiato ferocemente e su scala mondiale (come ad esempio, durante le epidemie di peste o colera).

Non potendo vedere direttamente i batteri, è stato veramente difficile, per l’essere umano, capire la causa delle epidemie che lo hanno continuamente bersagliato: quando la medicina era poco più di una masnada di bislacchi riti sciamanici, totalmente inutili o dannosi, spesso si attribuivano le cause delle infezioni all’ambiente malsano circostante (in particolar modo, l’aria considerata insalubre), all’influenza degli astri, alle immancabili ‘punizioni divine’, ecc.

Solo a fine del XVII secolo, per puro caso, un appassionato ottico olandese riuscì a vedere per la prima volta ciò che nessun altro aveva anche solo ipotizzato prima.

E da lì, cominciò la prima, vera, controffensiva del genere umano contro i suoi più acerrimi nemici.

Il concetto di ‘infezione’ per la medicina egizia

La medicina è una branca della scienza che studia il corpo umano, le sue malattie e le possibili cure e terapie per risolverle.

Ovviamente, ciò comporta lo studio e l’analisi di una più vasta gamma di altre discipline, come ad esempio l’anatomia umana, quella animale, la chimica, la fisica, la psicologia, l’ingegneria…

Praticamente tutto lo scibile umano.

L’obiettivo ultimo della medicina è proteggere la vita umana (o anche quella animale), e garantire, o ripristinare, lo stato di salute ottimale dei pazienti.

È una scienza antica presumibilmente quanto la prima apparizione dell’Homo Sapiens, e abbiamo traccia dei primi testi ‘medici’ già dal II millennio a.C., durante il dominio della civiltà babilonese nella Mesopotamia.

I batteri e le patologie infettive

La scarsa conoscenza della realtà delle popolazioni antiche ha fatto sì che, per millenni, la medicina venisse relegata a pratica pseudo-sciamanica, in cui più che un approccio razionale si preferiva dare importanza agli aspetti esoterici, come ad esempio le possessioni di spiriti demoniaci o, comunque, eventi soprannaturali.

Il primo approccio pseudo-razionale alle malattie è di origine egiziana: nel corso della lunghissima storia dell’Egitto, le popolazioni dell’antico regno si dedicarono con incredibile costanza allo studio delle patologie dell’anatomia, istituendo anche i primi ‘ordini specialistici’ per i medici e una sorta di prima istituzione della categoria degli infermieri.

Anche in Egitto, comunque, la medicina era appannaggio di una classe sociale ben definita, e grande era l’importanza data alle divinità e alla magia.

I batteri e i microorganismi in generale erano sconosciuti, ma gli egizi avevano comunque intuito per via empirica che era una buona cosa provvedere ad una buona igiene quotidiana: curavano molto la pulizia delle mani, che lavavano spesso durante la giornata e, cosa abbastanza inusuale specie per paesi in cui la siccità e la mancanza d’acqua sono problemi cronici, provvedevano anche ad una doccia giornaliera.

Per via empirica, avevano altresì intuito che i residui di cibo dei denti davano luogo alle infezioni e alle carie, e per questo li spazzolavano con il bicarbonato, regolarmente.

Ancora, parlando d’igiene orale, riuscivano a otturare le carie non dissimilmente da come facciamo noi ora, usando otturazioni a base d’oro.

I batteri e le patologie infettive

Sempre per via empirica, gli egizi avevano intuito che l’acqua (e i liquidi in generale in cui i batteri prosperano) è la causa principale della putrefazione del corpo umano dopo che esso ha cessato di vivere.

Il processo di mummificazione mirava pertanto a rimuovere dal corpo tutti gli organi e gli elementi marcescibili, provvedendo poi ad un essiccamento accelerato estremamente efficace, come dimostrato dal rinvenimento di mummie perfettamente conservate giunte ai nostri giorni.

Tuttavia, ogni tecnica medica egizia si basava essenzialmente sull’empiricità: il concetto causa-effetto delle patologie infettive, che ora noi sappiamo essere causato dall’attacco dei microorganismi, era a loro sconosciuto.

Le frequenti epidemie di poliomielite e vaiolo, tanto per citare due malattie di origine infettiva virale, lasciavano i medici dell’epoca sostanzialmente impotenti: persino il grande faraone Ramses V, a cui di certo non mancava il potere e il denaro per curarsi, venne ucciso dal Variola virus, come dimostra senza ombra di dubbio la sua mummia, pervenuta a noi con ancora ben visibili le pustole tipiche dell’infezione.

Tuttavia, cosa notevole per l’epoca, gli egizi erano perfettamente al corrente del sistema cardiocircolatorio, avendo intuito ed appurato, grazie ad una notevole abilità chirurgica, che il cuore è il centro motorio del sistema circolatorio, composto da vasi comunicanti tra di loro.

Ippocrate di Coo e l’inizio del pensiero razionale

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Ippocrate di Coo, il padre della medicina

Grazie alla vicinanza geografica, il sapere della medicina egizia raggiunse presto le città-stato della Grecia antica.

Nella piccola isola di Coo, fondò la sua scuola colui che diventò ufficialmente il primo ‘medico’ secondo i canoni moderni, Ippocrate.

Famoso per il suo storico giuramento, a cui i medici attuali sono ancora sottoposti all’obbedienza al momento della loro laurea, Ippocrate non solo contribuì ad istituire ufficialmente la figura del medico, con rilevanza sia etica che professionale, ma fu anche il primo ‘uomo di scienza’, rifiutandosi categoricamente di attribuire l’origine ‘divina’ o ‘astrale’ alle patologie.

Con la sua ‘teoria umorale’, Ippocrate tentò, per la prima volta, di fornire una spiegazione eziologica alle malattie, basata su quattro ‘umori’ prodotti dal corpo: sangue, flegma, bile gialla e bile nera.

Secondo Ippocrate, uno sbilanciamento di questi quattro umori provoca le patologie, ed è quindi compito del medico tentare di ripristinare l’equilibrio.

Oggi noi sappiamo che ciò non corrisponde al vero, ma comunque Ippocrate aveva centrato il concetto di base, valido tutt’ora: la patologia è uno sbilanciamento di in equilibrio interno di sicuro, solo che questo è dovuto ad una grande quantità di fattori, a volte interni e a volte, come nel caso dell’attacco dei microorganismi, esterni.

I batteri e le patologie infettive
Galeno di Pergamo, il cui pensiero influenzerà tutta la medicina, sino al Barocco

La teoria degli umori di Ippocrate fu ripresa magistralmente dal più famoso medico della Roma antica, Galeno di Pergamo, che rincarò la dose, accoppiando ad ognuno dei quattro umori anche un carattere della personalità.

Ancora, l’esistenza dei batteri e dei microorganismi non fu mai neppure solo ipotizzata, e così rimase ignorata fino alla fine del 1600.

Seppur indubbiamente notato di notevoli capacità razionali e di una mentalità estremamente brillante e curiosa, che lo portava naturalmente alla sperimentazione, anche Galeno nulla poté contro la tremenda ‘peste antonina’ del 165, causata molto probabilmente dal virus del vaiolo.

Ad Ippocrate e a Galeno vanno riconosciuti dei grandi meriti: entrambi furono ‘medici’ nel vero senso della parola, ed entrambi sperimentarono il pensiero razionale, anche aiutato (come nel caso di Galeno) dall’aiuto delle prime indagini anatomiche e chirurgiche.

Grazie all’ingegno dei romani, le condizioni igieniche dei popoli europei raggiunsero risultati d’eccellenza, a volte praticamente comparabili agli standard attuali.

Il meticoloso impianto idrico romano, che assicurava ai cittadini sempre acqua fresca corrente, unito alla maniacale cura dell’igiene del corpo e l’istituzione di terme e bagni pubblici, contribuì in maniera decisiva al mitigamento delle epidemie e delle infezioni batteriche.

Il degrado del Medioevo e l’inizio delle continue pestilenze

I batteri e le patologie infettive

Con il degrado dell’Impero Romano e la sua caduta, per l’Europa cominciò un lungo periodo non proprio esaltante, in cui le provincie del vecchio impero si dovettero riorganizzare, grossomodo negli Stati che conosciamo ai giorni nostri.

Fu un periodo di degrado, continue guerre ed estrema violenza, in cui buona parte del sapere antico fu sistematicamente ignorato, oppure completamente oscurato dai feroci colpi della nuova religione ascesa al potere, il Cristianesimo.

Il pioneristico lavoro dei medici greci e romani, così come i grandi traguardi raggiunti in fatto di pubblica salute ed igiene, furono totalmente dimenticati: la gente, per secoli e secoli, smise quasi completamente di avere una buona cura della persona.

Le terme scomparvero, così come l’efficiente sistema di acqua corrente dei romani.

Il sapere medico antico fu comunque preservato dalla chiesa e dalle librerie dei conventi, anche se venne essenzialmente oscurato dalla nuova dottrina cristiana, che vedeva le patologie come una ‘punizione divina’, inevitabile per via dell’impurità umana dovuta al peccato originale commesso da Adamo ed Eva nell’Eden.

Il dolore e la sofferenza causate dalle malattie vennero quindi dapprima disprezzati, in quanto testimonianze della collera di Dio verso gli impuri, e solo successivamente, nell’alto Medioevo, vennero riconvertiti in ottica di ‘pietas’ cristiana, trasformando monasteri e conventi nei primi ‘ospedali’ della storia.

In tutto ciò, l’approccio razionale e scientifico alle patologie venne sistematicamente ignorato: i medici dell’epoca erano regrediti a poco più che stregoni, e la ‘medicina’ diventò una gigantesca accozzaglia di riti magici, credenza tribale, preghiere d’invocazione d’aiuto a Dio e ai santi cristiani.

I batteri e le patologie infettive

L’arrivo della ‘peste nera’, la tremenda infezione causata dallo Yersinia pestis, fu uno shock fortissimo in tutta Europa: la gente dell’epoca non aveva mai visto una tale epidemia, e l’assoluta ignoranza dei medici dell’epoca, unita alle orribili condizioni igieniche della popolazione, portarono l’Europa tutta sull’orlo del collasso.

In pochi anni, morì circa 1/3 di tutta la gente d’Europa, causando enormi sconvolgimenti sociali ed economici.

La peste fu solo la prima delle grandi epidemie che flagellarono l’Europa per tutto il Medioevo: complici le prime aggregazioni dei centri urbani feudali, l’urbanizzazione malsana, l’assenza di sistemi fognari o di acquedotti, batteri e virus imperversarono per secoli, uccidendo centinaia di milioni di persone.

Oltre alla già citata peste, che colpì l’Europa a cadenze quasi regolari ogni 15-20 anni, si possono citare gli stermini compiuti dal vaiolo, dal morbillo, dalla febbre tifoide, dalla tubercolosi, dalla malaria, oltreché la grande quantità di altre infezioni, spesso mortali, avvenute in seguito ad incidenti ed episodi di guerra.

Si calcola che la vita media di un uomo del periodo viaggiasse tra i 28 e i 32 anni: a 35 si era già vecchi, mentre arrivare a 50 anni era un lusso concesso a pochi.

Si era già molto fortunati se non si moriva entro i primi 5 anni di vita, e la morte, al contrario del terrore che mette a noi ora, nei tempi contemporanei, paradossalmente era un evento considerato del tutto naturale, a cui la gente era abituata e che non destava particolare preoccupazione.

Faceva paura solo quando era molto dolorosa, oppure quando avveniva per grandissimi numeri, come durante le epidemie.

I batteri e le patologie infettive
La pulce del ratto orientale, insetto vettore dello Yersinia pestis

Nei secoli medievali, gli scrittori e gli storici dell’epoca redassero precise testimonianze delle principali epidemie, a partire proprio dalla peste nera.

All’inizio del Rinascimento, grossomodo durante la prima scoperta delle Americhe da parte degli europei, si era accumulato una grande quantità di materiale riguardo a tutte le pestilenze che avevano ammorbato il Vecchio Mondo: si sapevano i sintomi, le cadenze più o meno ricorrenti, si era istituito anche un sistema di quarantena e lazzaretti, in grado di arginare parzialmente le infezioni.

Tuttavia, nessuno mai si prese la briga di raccogliere tutti i dati disponibili e tentare di analizzarli razionalmente, per scoprire l’esatta causa delle periodiche pestilenze.

Fino alla fine del ‘600, la medicina ufficiale continuò ad additare la causa di peste, vaiolo e tifo all’influenza degli astri, all’aria malsana, alla punizione divina, ecc.

La scoperta degli ‘animaletti’

Sul finire del XVII secolo, un commerciante olandese, appassionato del lavoro avanguardistico di Galileo Galilei e di ottica, chiamato Antoni van Leeuwenhoek, utilizzando dei microscopi auto-prodotti di eccellente qualità, si rese conto che su alcuni campioni di materiale, anche sull’acqua potabile, erano presenti degli stranissimi ‘animaletti’, che parevano muoversi di propria volontà.

Inizialmente dubbioso, l’olandese decise di condividere le sue scoperte con la Royal Society di Londra, applicando con buona precisione il nuovo ‘metodo sperimentale’ sostenuto da Galilei.

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Antoni van Leeuwenhoek

Grazie alla grande potenza, per l’epoca, dei suoi microscopi, van Leeuwenhoek scoprì numerosi protozoi e batteri, di cui descrisse con grande accuratezza la struttura.

La scoperta di van Leeuwenhoek arrivava in un periodo tumultuoso per la scienza: destatasi da un torpore millenario grazie alla potenza della visione di Galilei, la medicina stava cominciando a mettere finalmente in dubbio le teorie di Ippocrate e Galeno, e a tramutare il proprio approccio da mistico e filosofico a razionale e scientifico.

Il medico aretino Francesco Redi, con un famoso esperimento, mise definitivamente fine alla teoria della ‘generazione spontanea’ della vita (teoria in voga all’epoca), provando scientificamente che la vita per come noi la conosciamo attualmente può generarsi solo da altra vita.

I batteri e le patologie infettive
Lazzaro Spallanzani, il padre della moderna biologia

Gli ‘animaletti’ scoperti da van Leeuwenhoek rimasero un oggetto di studio e di curiosità per circa un secolo, ma non furono inizialmente collegati alle patologie infettive.

Fu Lazzaro Spallanzani, eccezionalmente intelligente biologo italiano, a dimostrare che sono proprio i batteri a dare origine alla decomposizione, e che sterilizzate le superfici, per mezzo del calore, non si sviluppavano più colture batteriche osservabili al microscopio.

Fu così che si cominciò lentamente ad ipotizzare che alcune reazioni biologiche un tempo spiegate con la ‘generazione spontanea’, come ad esempio la nascita delle larve dai cibi decomposti, erano in realtà opera di qualcosa di invisibile, eppure presente.

Louis Pasteur e la nascita della microbiologia

A metà degli anni ’50 del 1800, nell’ormai ben più che illuminata Francia di Napoleone III, un giovane chimico chiamato Louis Pasteur, studiando al microscopio il processo di fermentazione della birra, intuì che le malattie del luppolo, che facevano rapidamente degradare la bevanda, erano portate da microscopici funghi, presenti nell’aria nel momento dell’imbottigliamento.

Essendo ben a conoscenza degli esperimenti di Spallanzani, Pasteur decise di provare uno dei primi metodi di parziale sterilizzazione alimentare, facendo riscaldare le bottiglie di birra ad una temperatura di circa 50-55°C.

Il processo funzionò, e Pasteur ottenne due ottimi risultati: erano stati uccisi i micro-funghi che causavano l’imbevibilità della birra troppo a lungo conservata e, soprattutto, non era stata intaccata né la fermentazione alcolica e né la bontà della bevanda.

Il processo prese quindi il nome di ‘pastorizzazione’ in onore del suo inventore, e Pasteur lo applicò poi con successo ad altre bevande, come ad esempio il vino ed il latte.

I batteri e le patologie infettive
Louis Pasteur, il padre della microbiologia

Per la prima volta nella storia, l’essere umano era riuscito a capire, seguendo un processo sperimentale, che l’origine delle patologie che per millenni avevano appestato animali, piante e alimenti era riconducibile ai microorganismi.

Pasteur per primo intuì che i microorganismi muoiono oltre una certa temperatura, e questo diede il via all’asepsi, ossia tutte quelle procedure e pratiche medico-sanitarie che servono a ad impedire la proliferazione e l’ingresso dei microorganismi negli ospiti, oppure anche nei ferri chirurgici utilizzati per le operazioni.

Contemporaneamente a Pasteur, il tedesco Robert Koch, appassionato anche lui della neonata microbiologia, ruscì ad isolare ed osservare per la prima volta il bacillo della tubercolosi (il Mycobacterium tuberculosis), la malattia secolare che appestava tutto il mondo conosciuto, e per la quale non esistevano cure definitive e, soprattutto, efficaci.

Koch mise nero su bianco non solo la sua scoperta, ma indicò anche quattro postulati (i famosi ‘postulati di Koch’), validi allora come ora, ed in grado di spiegare il legame tra microorganismo patogeno e la patologia che esso genera (in pratica, il principio di causa-effetto).

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Robert Koch, il primo epidemiologo della storia

Grazie al lavoro di Pasteur e Koch, si capì finalmente che le malattie che per millenni avevano ucciso, menomato e storpiato l’essere umano nei modi più orribili erano causate dai batteri, dai parassiti e dai virus: nemici invisibili, presenti in enormi quantità e in ogni ambiente, pronti in ogni momento ad attaccare altri organismi viventi, per depredarli e parassitarli.

Al contrario di quanto ipotizzato nel passato, le malattie infettive sono sì un disequilibrio del corpo, ma è un disequilibrio che risulta una risposta del corpo stesso all’attacco esterno di altri organismi, invisibili ad occhio nudo.

Una muffa per ucciderli

All’inizio del XX secolo, il capitano della Marina Militare italiana Vincenzo Tiberio, medico di bordo del Corpo Sanitario della Marina Militare, si accorse che nel cortile della casa dove viveva, vi era un particolare pozzo, utilizzato dagli abitanti della magione.

Il bordo della cisterna del pozzo, ambiente molto umido e quindi favorevole alla crescita delle muffe, doveva essere periodicamente ripulito dalle stesse.

Ora, il fatto curioso era che ogni volta che il pozzo veniva ripulito dalle muffe, gli abitanti della casa del capitano si ammalavano sistematicamente di enterite batterica.

Il medico militare intuì che, quindi, c’era una correlazione tra quella muffa che cresceva nel pozzo e la carica batterica presente nell’acqua dello stesso.

I batteri e le patologie infettive
Il capitano Vincenzo Tiberio, medico per per primo scoprì il potere battericida di alcune muffe

Dopo aver sottoposto a verifica sperimentale tale intuizione, sia su colonie in vitro che su animali, il capitano Tiberio confermò che il fungo dell’Aspergillus flavescens esercitava un’azione antisettica sui bacilli del tifo e del colera, uccidendoli pressoché all’istante.

Cosa abbastanza importante nella sperimentazione, Tiberio riuscì anche a preparare un composto iniettabile col principio attivo della muffa, che si rivelò efficace sia sulle cavie che sui conigli di laboratorio.

Il dottor Tiberio mise nero su bianco i suoi studi e i suoi esperimenti nel libretto sperimentale “Sugli estratti di alcune muffe”, ma il lavoro, incredibilmente, rimase confinato in ambito accademico.

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Alexander Fleming, medico inglese che per primo scoprì la penicillina grezza

Qualche anno più tardi, il medico scozzese Alexander Fleming, appassionato dello studio dei miceti, fece una scoperta del tutto causale: in una delle sue capsule dove teneva dei campioni di muffa, notò che attorno al fungo tutte le colonie batteriche erano morte.

Fleming si rese così conto che quella particolare muffa, da lui rinominata Penicillium rubrum, era in grado di uccidere istantaneamente una grande quantità di batteri, come gli streptococchi, gli sfafilococchi e tanti altri.

Sfortunatamente, anche per la mancanza di chimici esperti, al contrario di Tiberio, Fleming non riuscì a sintetizzare il principio attivo della muffa in un farmaco, e l’arrivo del mercato dei potenti sulfamidici prodotti dalla tedesca Bayer oscurarono per molti anni la scoperta del medico scozzese.

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La penicillina pura, la prima arma di sterminio di massa della storia

Allo scoppio della devastante Seconda Guerra Mondiale, tuttavia, ad Oxford un gruppo di brillanti scienziati riuscì a sintetizzare la penicillina pura, un migliaio di volte più potente di quella grezza scoperta da Fleming.

I risultati sperimentali furono subito estremamente soddisfacenti, e l’incalzante conflitto fece accordare gli ideatori della formula, Howard Florey e Ernst Boris Chain, per la produzione su larga scala grazie alla potenza industriale americana.

Nel più orrendo conflitto del XX secolo, l’umanità comunque era riuscita a sferrare il primo, decisivo, colpo al mondo dei batteri e delle infezioni da essi causate: era nata la penicillina.

Grazie ad essa, malattie millenarie giudicate incurabili poterono essere invece trattate e risolte con successo in pochi giorni, cambiando per sempre non solo la medicina, ma anche l’aspettativa di vita degli esseri umani.

L’era degli antibiotici

In medicina, un farmaco antibiotico (letteralmente ‘contro la vita’) è un preparato in grado di uccidere o rallentare l’azione di una o più specie batteriche.

Dalla sintesi della penicillina pura (benzilpenicillina) del 1938, nel corso degli anni la continua ricerca farmaceutica ha scoperto e sintetizzato oltre un centinaio di molecole con principio attivo antibiotico, in grado di uccidere un gran numero di batteri, e curare così una grande quantità di patologie.

Gli antibiotici che inibiscono la capacità di riproduzione del batterio, impedendone così la replicazione, si chiamano batteriostatici, mentre gli antibiotici che lo uccidono si chiamano battericidi.

Solitamente, i batteriostatici agiscono bloccando la replicazione del DNA batterico, mentre i battericidi mirano alla distruzione della capsula del batterio, oppure della sua membrana.

I batteri e le patologie infettive

Dalla loro introduzione sul mercato, gli antibiotici hanno salvato miliardi di vite, rendendo malattie un tempo mortali come la polmonite o la difterite molto meno letali.

Altre malattie insanabili e a decorso cronico, come la sifilide o la lebbra, sono ora invece completamente e facilmente curabili, spesso con una sola applicazione di penicillina o dei suoi derivati.

Al contrario di quello che la gente ancora crede, gli antibiotici sono efficaci solo nel caso di infezioni batteriche: non hanno alcun effetto contro i virus e le patologie virali da essi portate.

Ancora, il loro uso, specie se smodato, induce il fenomeno della resistenza batterica: essendo sottoposti all’evoluzione, anche i batteri possono mutare ed evolversi, divenendo resistenti alle molecole antibiotiche.

Le malattie più tremende causate dai batteri

Da millenni, i batteri causano una quantità enorme di patologie all’essere umano, agli animali e alle piante.

Sono gli agenti responsabili delle infezioni comuni, del mal di gola, di svariati tipi di bronchiti e polmoniti, e di orribili pandemie che, nel passato, hanno causato milioni e milioni di morti.

Prima dell’avvento degli antibiotici, alcune patologie causate dai batteri erano ritenute incurabili, ed i poveri infetti considerati dei veri e propri reietti, emarginati dalla società.

Tante altre hanno causato veri e propri disastri non solo sanitari, ma sociali, cambiando completamente intere società e la concezione stessa della vita terrena.

Ecco quindi l’elenco delle patologie di origine batterica più micidiali, da millenni vere e proprio spine nel fianco dell’umanità, e solo nell’ultimo secolo divenute molto meno spaventose.

La peste

I batteri e le patologie infettive

Malattia altamente infettiva, causata dal batterio dello Yersinia pestis, dalla caratteristica forma oblunga (è un coccobacillo).

Può vivere con o senza ossigeno, e infetta l’essere umano attraverso la puntura della pulce Xenopsylla cheopis, che a sua volta parassita i ratti e i roditori in generale.

La pulce, a suo agio nei climi caldi e secchi, può passare dal topo all’uomo, inoculando attraverso la sua saliva i bacilli dello Yersinia pestis.

Come praticamente tutte i germi mediati dai vettori, lo Yersinia pestis ha un’altissima carica batterica: ne basta un numero limitato per invadere il corpo umano, facendosi strada principalmente attraverso il sistema linfatico, arrivando ed infiammando i linfonodi.

Qui il batterio si moltiplica rapidamente, anche perché è immune all’attacco dei monociti, che non riescono a degradarlo.

Ciò fa ingrossare a dismisura i linfonodi, che assumono quindi la caratteristica forma di ‘bubboni’, carichi di pus.

Si ha quindi la famosa ‘peste bubbonica’ che, se non trattata, porta alla morte nel 60% dei casi.

Sebbene terribile, la forma bubbonica è la più leggera delle tre manifestazioni cliniche dell’infezione da Yersinia pestis: i nostri antenati europei, letteralmente flagellati, per secoli, dalle pestilenze, anche se in piccolo numero riuscivano a guarire.

I batteri e le patologie infettive

La peste polmonare si ha invece quando lo Yersinia pestis è trasmesso attraverso l’alito infetto, carico di saliva e batteri, da uomo a uomo.

Il batterio penetra dalle vie respiratorie direttamente nei polmoni, dove nidifica e causa una polmonite acuta.

È mortale nella quasi totalità dei casi, se non trattata tempestivamente con gli antibiotici.

A volte, la peste bubbonica può degenerare in una forma polmonare, solitamente mortale.
Storicamente, sono pochissimi i casi documentati di guarigione spontanea dalla peste polmonare.

I batteri e le patologie infettive
Il nemico più tremendo del Medioevo: la pulce dei ratti, portatrice dello Yersinia pestis

Quando lo Yersinia pestis si propaga attraverso il sistema circolatorio, magari in seguito alla rottura di un linfonodo ormai completamente infetto, si ha invece la peste setticemica.

È mortale nel 100% dei casi non trattati, e porta al decesso in pochissime ore.

Alla peste setticemica si deve il soprannome di ‘peste nera’, in quanto causa quasi sempre necrosi degli arti, prima della morte per shock settico.

Con il tempestivo intervento antibiotico la mortalità si riduce di molto, ma ovviamente ciò non era possibile durante le epidemie degli scorsi secoli.

Dei tipici sintomi della peste bubbonica ci da una precisa visione Giovanni Boccaccio, nel suo famoso "Decamerone":

(..) E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva sangue del naso era manifesto segno d’inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi ed alle femine parimente o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela ed altre come uno uovo, ed alcuna piú ed alcuna meno, le quali li volgari nominavan «gavoccioli».
E dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il giá detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere ed a venire: ed appresso questo, si cominciò la qualitá della predetta infermitá a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce ed in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade ed a cui minute e spesse.
E come il gavocciolo primieramente era stato ed ancora era certissimo indizio di futura morte, e cosí erano queste a ciascuno a cui venivano. 

La peste è originaria della Mongolia e della Cina dove, nei secoli passati, le infezioni dei roditori causate dallo Yersinia pestis erano endemiche.

Arrivò per la prima volta in Europa nel 527, e decimò l’Impero Bizantino, colpendo con particolare ferocia la sua capitale, Costantinopoli (la famosa ‘peste di Giustiniano’).

Le cronache raccontano di circa 10.000 morti al giorno, con una popolazione cittadina ridotta del 40% in pochi mesi.

Contribuì in maniera sostanziale al definitivo crollo dell’Impero Romano d’Occidente, segnando il passaggio agli oscuri secoli medievali.

Fu talmente feroce che, anche grazie all’altrettanto truce conflitto con i Goti, praticamente spopolò del tutto la grande Roma, che da megalopoli imperiale con oltre 1.000.000 di abitanti si ridusse a fatiscente deserto con poche centinaia di persone.

Dopo la prima, violenta, ondata, si ripresentò in maniera più blanda fino al 750, lasciando dietro di sé almeno 25.000.000 di morti, sebbene le revisioni storiche recenti stimino la cifra in oltre 100.000.000 di decessi.
Ammalarsi di peste nel Medioevo equivaleva a morire in oltre il 60% dei casi,
ma forse il problema principale non era tanto la morte in sé, un evento tutto sommato considerato molto più naturale ed accettato in quel periodo che ai giorni nostri.
Piuttosto, i problemi principali delle genti europee durante le pestilenze erano essenzialmente due:

1. Morire senza sacramenti (la cosa più temuta in assoluto);
2. Morire al lazzaretto


I lazzaretti erano ospedali temporanei, in realtà molto più simili a campi di concentramento che a nosocomi, dove erano a forza portati i malati di peste, nel tentativo ufficiale di 'sanarli'.
In realtà, lo scopo principale dei lazzaretti era quello di confinare gli appestati il più lontano possibile dalle città, ed aspettare poi che lì crepassero.

Anche non avendo nozione della causa-effetto tra malattia ed agente patogeno, il microbo dello Yersinia pestis, i nostri antenati avevano comunque intuito che il contagio avveniva per contatto ravvicinato con i malati, e per questo (giustamente) ritenevano saggio confinare i disgraziati ben lontani dai sani.
Le pessime condizioni igieniche dei lazzaretti, l'assenza di qualsivoglia protocollo sanitario di isolamento (gli infetti morti, invece che essere bruciati, per la fretta venivano ammucchiati per giorni e giorni), l'assoluto lassismo ed impreparazione dei medici dell'epoca rendevano pressoché certa la morte di tutti i pazienti.

Per non morire al lazzaretto, spesso i cittadini più abbienti colpiti dal morbo arrivavano a pagare i medici, pur di non divulgare la loro condizione.
Al lazzaretto quindi finivano per lo più i poveri, o quelli senza fissa dimora.
Ai benestanti, o ai fortunati che avevano una casupola e qualcosa con cui potevano corrompere i medici, toccava spesso altra sorte.
Quando si manifestavano i primi segni della peste, solitamente i bubboni, amici e parenti del malato si dileguavano quasi immediatamente: i figli abbandonavano volentieri i genitori e, cosa che sembrerebbe orribile al giorno d'oggi, anche i genitori abbandonavano senza troppi scrupoli i figlioli.
Quasi sempre, il povero malato veniva lasciato a morire solo, sprangato in casa senza acqua né viveri, con l'uscio segnato da una croce bianca, che indicava il contagio.
Se il poveraccio non moriva di peste, moriva senz'altro d'inedia.

L'arrivo dei monatti, i becchini incaricati di raccogliere i cadaveri dalle case, concludeva l'opera: essi, quasi sempre dei ruvidi e gretti, assoldati dalle città solo perché, fortunati, guariti dalla peste e pertanto immuni al morbo, non si facevano troppi scrupoli, né usavano gentilezze con i morti. Li spogliavano dei pochi beni che riuscivano a trovare, perquisivano le case in cerca di denari o oggetti di interesse (tanto, nessuno c'era a contrastarli, giacché gli abitanti erano tutti morti), compivano ogni genere di sopruso, forti dell'autorità che gli conferiva la legge.

Dopo secoli di quiete che, complice l’analfabetismo della popolazione e l’ignoranza generale della storia antica, contribuirono a farne dimenticare il ricordo, la peste si ripresentò nel 1347.

Anche stavolta venne dall’Asia, e fu portata dai topi infetti delle navi genovesi che avevano fiorenti colonie in Crimea, dopo aver subito il primo ‘attacco batteriologico’ della storia, per buona grazia dei mongoli del Khan.

I feroci mongoli, difatti, durante l'assendio a Caffa, prima della ritirata catapultarono dentro le mura della città i cadaveri infetti di peste, contaminando così i genovesi.

Grazie ai topi e alle loro pulci, il morbo si espanse rapidamente in tutta Europa seguendo la florida rete commerciale degli italiani, dal Portogallo alla Russia.

Complice il clima di allora caldo e secco, e di città che, dopo l’anno mille, si stavano finalmente ripopolando (solo Milano arrivava a circa 150.000 cittadini, una cifra considerevole per quel periodo), la peste trovò un ambiente ideale per la proliferazione.

I batteri e le patologie infettive
I ratti, e i roditori in generale, sono i serbatoi prediletti delle pulci, a loro volta infette dallo Yersinia pestis

L’assenza totale di fognature, le perenni infestazioni dei ratti, i livelli igienici personali scarsissimi e l’assoluta impreparazione dei medici del tempo (più che altro stregoni o poco più), ebbero un ruolo determinante nel far propagare il morbo a livelli mai visti.

La pestilenza, chiamata ‘peste nera’ per via delle frequenti necrosi che dava nella sua forma setticemica, non solo ammazzò 1/3 della popolazione europea dell’epoca, ma ebbe un impatto talmente devastante sull’economia e sulla società del periodo, tale da essere tutt’ora ricordata come una delle più grandi disgrazie dell’umanità.

Dalla sua ricomparsa del XIV secolo, la peste si ripresentò a cicli regolari in Europa, sino all’ultima grande epidemia di Marsiglia alla fine del ‘700.

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Lo svizzero Alexandre Yersin, scopritore dell'agente patogeno che causa la peste

Col migliorare delle condizioni igieniche, la costruzione dei lazzaretti e l’istituzione delle quarantene, la peste fu, anche se a fatica, più o meno controllata.

L’ultima grande epidemia mondiale vi fu in Asia, sul finire del XIX secolo: proprio durante l’infezione che sconvolse Hong Kong, lo svizzero Alexandre Yersin, agli ordini di Louis Pasteur, e il giapponese Kitasato Shibasaburo, isolarono per primi il batterio patogeno della peste, rinominato dapprima Pasteurella pestis (in onore di Pasteur), e poi Yersinia in onore di Yersin.

Sempre Yersin comprese il meccanismo di diffusione del batterio, ovverosia l’insetto vettore della pulce dei ratti.

Una volta compreso come il batterio si diffondeva, le misure di eradicazione (derattizzazione e sanificazione delle città) furono conseguenti.

L’ultima piccola epidemia di peste vi fu nella costa occidentale degli Stati Uniti ad inizio del XX secolo.

Attualmente, sebbene lo Yersinia pestis sia rimasto endemico in molte regioni del mondo, i rigidi protocolli sanitari e l’utilizzo tempestivo degli antibiotici rendono la situazione sotto controllo, con pochi sporadici casi segnalati ogni anno.

Il colera

Il vibrione Vibrio cholerae, è un batterio molto adattabile: si trova infatti a proprio agio sia in ambiente acquatico e sia nel colon umano, dove nidifica e si riproduce rapidamente, dando origine alla tremenda patologia del colera.

Una volta penetrato nell’intestino a seguito dell’ingestione di acqua o cibo contaminati, il vibrione si aggrappa ai villi intestinali, dove si riproduce in un ambiente a lui ideale (acqua e cibo in grande quantità), producendo come regalo la famosa tossina colerica, capace di provocare impressionanti scariche diarroiche e, talvolta, anche vomito.

In un adulto, la tossina colerica può provocare fino a 100 scariche al giorno, e circa un litro di liquidi perduti mediamente ogni ora.

Ciò provoca rapidissima, severa disidratazione che, se non reintegrata tempestivamente, provoca la morte per shock ipovolemico.

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Il colera è una malattia endemica in Asia, soprattutto in India: già nel 1490 il famoso esploratore portoghese Vasco da Gama ne descrisse accuratamente i sintomi, dopo aver visto i suoi uomini contrarla nella zona del delta del Gange.

La malattia rimase confinata nell’area asiatica per secoli: la sua incubazione è rapida, il suo decorso molto breve, e la possibilità di contagio da uomo a uomo sono principalmente dopo contaminazione da feci infette.

Ciò la rende poco trasmissibile fuori dall’area endemica, al contrario delle altre patologie, come la peste, che invece viaggiano tranquillamente in tutto il mondo grazie agli insetti vettori.

Il colera arrivò in Europa sul finire degli anni ’20 del XIX secolo, sfruttando la velocità dei nuovi piroscafi a vapore, che potevano far viaggiare le persone infette molto più velocemente rispetto al passato (e quindi, permettere meglio il contagio dal luogo endemico ad altri posti).

Il focolaio asiatico, probabilmente nel Bengala, fu efficacemente portato nel resto del mondo per gentile concessione dell’Impero Britannico, grazie agli spostamenti delle truppe inglesi infette.

La malattia cominciò immediatamente a falcidiare le popolazioni europee, assolutamente all’oscuro della tipologia della nuova infezione, partendo dalla Russia e dai paesi nordici.

In pochissimo tempo, falcidiò centinaia di migliaia di persone a Mosca, in Polonia, in Germania e a Vienna, dove in poche settimane ammazzò qualcosa come 250.000 persone.

Nel 1832 arrivò a Parigi, poi in Inghilterra ed infine in Italia, dove il morbo appestò tutti gli statarelli della penisola e vi rimase praticamente endemico fino alla fine del secolo.

I batteri e le patologie infettive
Filippo Pacini, che per primo isolò il vibrione del colera

Difficile stabilire con certezza quanti morti fece il colera sin dalla sua comparsa europea, ma le stime (per difetto) parlano comunque di milioni: tutt’ora, la patologia colpisce dai 3 ai 5 milioni di persone nel mondo, causando fino a 130.000 decessi ogni anno.

I medici dell’epoca, in un secolo in cui la medicina subì una drastica involuzione, si dimostrarono impotenti di fronte alla nuova malattia che, oltretutto, non si sapeva neppure come contagiava le persone, in così poco tempo e anche se esse erano tenute opportunamente a distanza tra di loro.

Fu un medico inglese, John Snow, ad intuire che il vibrione molto probabilmente non si trasmetteva attraverso l’aria, bensì l’acqua.

Le sue teorie furono confermate dal dottor Filippo Pacini, che nel 1854 riuscì ad isolare ed osservare al microscopio un curioso batterio a forma di “S”, presente sempre in tutte le feci dei malati di colera.

La tesi di Pacini, che associava le lesioni intestinali al nuovo scoperto vibrione, non fu però accettata dagli scienziati del periodo.

Fu il batteriologo tedesco Robert Koch che, con i suoi famosi quattro postulati, definì scientificamente il rapporto causa-effetto tra germi e patologie, mettendo fine una volta per tutte alle decine di tesi alternative che circolavano da secoli.

Anche se correntemente ancora indicato come pandemia dall’OMS, il colera ora è una malattia che rimane endemica solo nei paesi più poveri, dove le condizioni igieniche sono scarse e dove, spesso, non esiste un sistema fognario efficiente.

Oltre alla sanificazione degli ambienti malsani e a bassa igiene, la prevenzione della patologia può essere effettuata grazie ai moderni vaccini orali, molto più efficaci rispetto alle passate vaccinazioni iniettabili.

La tubercolosi

Gravissima infezione, generalmente polmonare, causata dai micobatteri, un genere di bacilli decisamente curioso, dalla spessa parete cellulare che li rende particolarmente coriacei.

Tra tutti i ceppi infettivi per l’uomo, il più temibile è sicuramente il Mycobacterium tuberculosis, agente infettivo principale della tubercolosi (abbreviata spesso in TBC, oppure tisi).

Il batterio si trasmette da essere umano a essere umano per via aerea, tramite le minuscole goccioline di saliva emesse dai colpi di tosse secca (caratteristici della fase iniziale dell’infezione).

Il 90% delle infezioni da Mycobacterium tuberculosis è fortunatamente asintomatico, e il batterio è sconfitto dal sistema immunitario dell’ospite.

Tuttavia, il restante 10% viene colpito dalla forma cronica della tubercolosi, a lenta ma inesorabile progressione e che, se non curata per tempo, porta alla morte in circa la metà dei casi.

La tubercolosi appesta tutta l’umanità praticamente da sempre: resti di uomini preistorici hanno confermato la presenza dell’infezione batterica già nel 4 000 a.C., e resti genetici del batterio sono stati trovati anche nelle mummie egizie del 3 000 a.C.

Ippocrate di Coo, il padre della medicina, già ai suoi tempi descriveva con accuratezza i sintomi tipici, considerando la patologia come la più comune e diffusa.

La tisi fu considerata da sempre come malattia che difficilmente lasciava scampo, e l’ampia varietà di sintomi spesso l’hanno fatta confondere con molte altre patologie, rendendo le diagnosi difficili per la grezza medicina del passato.

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Il medico inglese seicentesco Richard Morton fu il primo a studiare a fondo i malati di tubercolosi, e fu anche il primo ad accorgersi dei piccolissimi tubercoli, causati dall’infezione del batterio.

Dopo secoli di speculazioni e ipotesi, fu il medico tedesco Robert Koch ad isolare per primo il Mycobacterium tuberculosis, chiamato poi in suo onore ‘bacillo di Koch’.

Una volta capito il meccanismo di diffusione, praticamente tutti gli stati occidentali si organizzarono per prevenire e contenere la patologia che, all’inizio del XIX secolo, era considerata una vera e propria piaga sociale, specie della classe più povera.

Vennero così istituiti, sia in Europa che in America, i ‘sanatori’, ospedali che spesso ricordavano autentiche prigioni, specializzati nel contenere e trattare i malati cronici di tubercolosi.

Le cure mediche per il bacillo di Koch si rivelarono quasi sempre mediocri, per non dire inefficienti, anche dopo la scoperta della penicillina: la coriacea parete esterna del bacillo lo rende impermeabile ed immune all’azione di molti antibiotici, e solo negli anni ’40 del XX secolo, con la sintesi della streptomicina, si riuscì a trattare con efficacia la patologia.

Attualmente, la cura della tisi è rimasta molto complessa, anche con l’avvento di nuovi antibiotici specifici come la rifampicina, la pirazinamide, l’etambutolo e isoniazide.

Solitamente, questi quattro principi attivi vengono somministrati per tempi predefiniti in base a protocolli dimostratisi efficaci e, sempre solitamente, il trattamento si protrae per circa un anno (a volte, di più), prima dell’eradicazione completa del batterio dal corpo.

Per via di un’elevata resistenza agli antibiotici comprovata del bacillo, tuttavia, esistono casi di tisi purtroppo al momento incurabili con i principi attivi conosciuti, e pertanto la terapia è necessariamente di supporto, unita a uno o più mix di battericidi.

Attualmente, la tubercolosi rimane una pandemia mondiale: endemica in alcune zone asiatiche e africane, estremamente ridotta nei paesi industrializzati, si stimano comunque oltre una decina di milioni di pazienti cronici in tutto il mondo, oltre ai milioni di nuovi casi l’anno, che comportano oltre un milione di decessi totali.

La lebbra

Antichissima malattia, poco infettiva ma ad andamento cronico e solitamente irreversibile, causata dal Mycobacterium leprae, chiamato anche bacillo di Hansen.

Abbiamo testimonianze storiche certe della patologia già nel II secolo prima del Cristo, grazie a ritrovamenti di resti umani in India e Pakistan con evidenti segni di lebbra.

In epoca romana, sia l’illustre medico Auto Cornelio Celso che il famoso Plinio il Vecchio ne descrissero accuratamente i sintomi.

Dall’Asia, la malattia si spostò lentamente in Europa, dove nel Medioevo diventò endemica.

I batteri e le patologie infettive

Il bacillo di Hansen, così chiamato in onore del suo scopritore Gerhard Henrik Armauer Hanser , è un microcobo poco contagioso, però molto subdolo: ha bisogno di grandi cariche batteriche per dare inizio ad una seria infezione, ma si duplica molto lentamente, tra i 18 e i 42 giorni di media.

Preferisce infestare le zone più fredde del corpo (gli arti, le orecchie, i testicoli, i nervi periferici, ecc.) e, prima di palesare i primi sintomi, l’infetto può tenere il bacillo in incubazione anche per molti anni.

La malattia si presenta in numerose forme, a seconda della zona in cui i batteri hanno formato la colonia, che determina anche la gravità dell’infezione: dalla forma indeterminata, che presenta solo una lesione maculare, cronica, fino alla forma lepromatosa che causa comparsa di noduli e lesioni in tutto il corpo.

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La forma lepromatosa è particolarmente truce e devastante: il bacillo, non più frenato da una congrua risposta dei macrofagi, s’espande in tutto il corpo, anche nelle cellule delle ossa, causando orribili deformazioni, perdita delle dita, dei piedi, della mascella, del naso, fino alla più completa insensibilità delle terminazioni nervose periferiche.

Dall’infezione del bacillo di Hansen il corpo umano in certi casi (conenuti) può guarire, ma la forma lepromatosa è quasi sempre cronica, ed inevitabilmente, se non opportunamente trattata, porta a cecità, mutilazioni sparse e insufficienza renale cronica, che porta conseguenzialmente al decesso.

Nei secoli passati, per via della sua manifestazione nella forma lepromatosa, la lebbra è stata considerata come una punizione divina, e i poveracci che ne erano contagiati, i lebbrosi, perennemente schifati ed esiliati dalle loro comunità.

Costretti a lasciare famiglia ed affetti (che, spesso, li disprezzavano considerandoli dei puniti da Dio), erano esiliati ai margini della vita comune, quando proprio non cacciati dalle città.

Molti di loro, essendo considerati dei ‘morti viventi’ venivano dichiarati ufficialmente morti, e veniva versata sul loro capo della terra proveniente dai cimiteri, prima della loro cacciata dalla città, oppure l’entrata nei lebbrosari (speciali strutture contenitive simili più simili a galere che ospedali), da cui non facevano mai più ritorno.

In molti paesi europei, erano obbligati a indossare abiti specifici e suonare, al loro passaggio, una campanella, per avvertire gli altri del loro arrivo (cosicché tutti potessero fuggire).

Ciò invitò, anzi costrinse, molti di loro a riorganizzarsi in piccole comunità, tentando di aiutarsi a vicenda.

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Gerhard Henrik Armauer Hanser, scopritore del bacillo della lebbra

Per secoli considerata patologia insanabile, l’eziogenesi della lebbra fu chiara quando il dottor  Gerhard Henrik Armauer Hanser scoprì al microscopio il Mycobacterium leprae definendo, per la prima volta nella storia medica, la reale causa-effetto di una patologia infettiva.

Negli anni ’50 del XX secolo, con la sintesi della rifampicina, la lebbra perse la sua aurea di incurabilità per divenire una patologia facilmente e completamente trattabile.

Al giorno d’oggi, basta una terapia specifica, sempre a base di rifampicina, per debellare in pochi mesi ogni traccia dell’infezione batterica, consentendo al paziente il ritorno ad una vita normale.

La polmonite batterica

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C’è una patologia micidiale, che da millenni uccide senza pietà in tutto il mondo, e che rappresenta tutt’ora una delle prime cause di morte totali dell’essere umano.

Si stima che infetti circa il 7% della popolazione mondiale, causando milioni di morti ogni anno.

È la polmonite, ovverosia l’infiammazione degli alveoli polmonari, e in via generale, del sistema respiratorio.

Sebbene i polmoni possano subire l’attacco di molti microorganismi, parassiti e virus inclusi, la maggioranza dei casi di polmonite (oltre il 50% dei totali) sono causati da un’infezione batterica.

I batteri più comuni che, annidandosi nei polmoni, ne causano l’infezione acuta, sono più o meno gli stessi da migliaia di anni: Haemophilus influenzae, Chlamydophila pneumoniae, Mycoplasma pneumoniae, lo Staphylococcus aureus, il Moraxella catarrhalis e il temibile Legionella pneumophila.

Spesso, l’infezione batterica che genera la polmonite è un attacco opportunistico: in caso di pregressa malattia debilitante (come ad esempio, l’infezione da Influenzavirus oppure un’immunodeficienza momentanea), i batteri possono approfittare delle difese immunitarie molto basse e farsi strada nel tratto respiratorio, annidandosi nei bronchi e negli alveoli polmonari.

I batteri e le patologie infettive

La polmonite batterica è una patologia estremamente comune e, prima dell’avvento degli antibiotici, quasi sempre mortale: ha falcidiato esseri umani senza pietà sin dalla loro comparsa sulla Terra, e tutt’ora ha numeri impressionanti.

Contagia centinaia di milioni di persone in tutto il mondo ogni anno, accoppandone qualche milione.

Per la nota e progressiva resistenza dei batteri agli antibiotici (un problema serio, che riguarda anche altre patologie), alcuni tipi di bacilli possono dar luogo a polmoniti complicate, difficili da trattare e, potenzialmente, letali.

È il caso, ad esempio, dello Staphylococcus aureus resistente alla meticillina, contro il quale le penicilline ormai non hanno più nessun effetto.

Il tetano

I batteri e le patologie infettive

C’è una malattia orribile, che porta ad una dolorosissima morte per paralisi spastica, irrigidendo tutto il corpo, dal viso sino ai piedi.

Per millenni, ha ucciso senza pietà in tutto il mondo, bersagliando in particolar modo le donne partorienti.

È causata da una micidiale tossina prodotta dal bacillo del Clostridium tetani, un batterio senza capsula, in grado di muoversi automaticamente, la cui caratteristica saliente è quella di essere anaerobico forzato.

Questo vuol dire che il bacillo muore se viene a contatto con l’ossigeno: per questo ama infestare i tessuti interni degli animali, vivendo particolarmente bene in stato commensale nel tratto gastrointestinale dei ruminanti, come mucche, cavalli e pecore.

La propagazione avviene con l’espulsione delle feci degli animali, cariche di batteri, che infettano i terreni.

I batteri e le patologie infettive

Datosi che il contatto con l’ossigeno è mortale per il batterio, per sopravvivere in ambiente esterno il Clostridium tetani regredisce a spora, uno stato in cui può rimanere per anni, e con cui può contaminare terra, oggetti e metalli.

Se l’essere umano si ferisce profondamente con un oggetto contaminato dalle spore del tetano, esse si riattivano nel corpo e danno luogo alla proliferazione batterica, con conseguente produzione della tossina tetanospasmina, che da inizio alla patologia tetanica.

Per dar luogo all’infezione, il tetano ha necessariamente bisogno di penetrare in profondità nei tessuti, in quanto ferite superficiali (specie se prontamente disinfettate con acqua ossigenata) permettono il contatto con l’ossigeno, che per il batterio è un gas letale.

Questo ciclo vitale rende il tetano una patologia temibile, ma non contagiosa: non è possibile infatti la trasmissione diretta da uomo a uomo, ed ogni contagio avviene esclusivamente dopo una ferita profonda, con materiale contaminato dalle spore del tetano.

Il periodo d’incubazione delle spore del tetano è variabile, da poche ore a qualche giorno (circa due settimane): la tossina tetanica, prodotta dalle colonie batteriche annidate nel corpo, risale il midollo spinale ed arriva al tronco cerebrale, dove risulta letale per i neurotrasmettitori.

Senza più segnali dal cervello, i muscoli del corpo iniziano a paralizzarsi, dando contestualmente inizio a devastanti contrazioni simultanee di antagonisti e agonisti.

Questo porta spesso alla paralisi respiratoria, e quindi alla morte del paziente infetto.

Il tetano è conosciuto dall’uomo sin dall’antichità: già Ippocrate ne descriveva i tipici sintomi, e fino alla fine del 1800 si riteneva che la malattia fosse di origine neurologica.

Furono i dottori Antonio Carle e Giorgio Rattone, docenti dell’Università di Torino, a scoprire che la malattia ha invece origine infettiva: rispondendo ai postulati di Koch, se materiale purulento di un infetto veniva iniettato in un soggetto sano, la patologia si manifestava.

Fu invece il medico tedesco Arthur Nocolaier ad isolare per primo il batterio, scoprendone quindi la relazione con la malattia del tetano.

Ai medici italiani Guido Tizzoni e Giuseppina Cattani si deve l’isolamento della tossina tetanica, mentre al famoso Istituto Pasteur va il merito di aver sviluppato per primo il vaccino tetanico.

Se non trattato tempestivamente, il tetano è quasi sempre mortale, specie nelle sue forme gravi.

La morte sopraggiunge per asfissia o arresto cardiaco, mentre una grande quantità di effetti collaterali (sepsi, embolie, strappi muscolari, fratture, lussazioni, ecc.) possono comunque manifestarsi anche in caso di decorso non letale.

Con i protocolli medici moderni di supporto (a base di miorilassanti, ventilazione meccanica e antibiotici) la mortalità dei pazienti è ormai molto bassa, sempre che questi accedano tempestivamente alle cure.

Ormai da oltre un secolo sono stati sviluppati molti vaccini antitetanici, divenuti obbligatori per legge, che sviluppano le immunoglobine contro la tossina tetanica, e donano quindi l’immunità alla malattia.  

La sifilide

Durante la prima esplorazione assoluta degli europei nei territori americani, sotto la guida di Cristoforo Colombo, molti marinai spagnoli non resistettero al fascino esotico delle ragazze autoctone delle Bahamas, finendo per accoppiarsi con loro.

Purtroppo, le belle ragazze del Nuovo Mondo appiopparono un bel regalino agli europei, il batterio del Treponema pallidum, all’epoca sconosciuto in Europa.

Questo curioso batterio a forma di molla e quasi trasparente è molto subdolo: penetra nel corpo dell’ospite durante il rapporto sessuale, ed è abbastanza furbo da mascherarsi in maniera impeccabile ai linfociti del sistema immunitario umano, ricoprendosi di una pellicola chimicamente simile a quella del tessuto connettivo (fibronectina).

Ciò causa un’altissima e cronica proliferazione batterica, in quanto gli anticorpi non riescono a distinguere il batterio dal normare tessuto connettivo del corpo.

I batteri e le patologie infettive

La sifilide, la forma clinica dell’infezione del Treponema pallidum, infestò quasi immediatamente tutta l’Europa al ritorno dei marinai di Colombo.

Dapprima si diffuse in Spagna e Francia, poi fu portata in Italia da Carlo VIII e dal suo esercito di mercenari, quando il re spagnolo decise bene di muovere verso Napoli, per reclamare (a suo dire) il diritto di regno sul paese, dando origine alle disastrose ‘guerre d’Italia’.

Chiamata quasi subito ‘mal francese’ (poiché portata dalle truppe franzose), la sifilide diventò endemica in tutta Europa, dando origine a una lunghissima epidemia.

La rozza medicina dell’epoca post-medievale era più o meno riuscita a contenere, sebbene non sempre efficientemente, le periodiche epidemie di peste, con l’istituzione dei lazzaretti e delle quarantene, ma si dimostrò totalmente impreparata a combattere un’infezione di esclusiva origine venerea.

In un’epoca dove l’igiene personale era pressoché inesistente e i rapporti promiscui all’ordine del giorno (quasi tutte le famiglie del popolo erano imparentate tra di loro anche con rapporti incestuosi, e la cosa era considerata normale), il batterio ebbe gioco fin troppo facile ad insinuarsi in qualsiasi contesto sociale, dal ceto più povero sino alle corti dei nobili.

I batteri e le patologie infettive
Girolamo Fracastoro, medico padovano che, per primo, intuì che la sifilide era causata da microscopici agenti patogeni

Fu il famoso medico veronese Girolamo Fracastoro, considerato il padre della moderna patologia, ad intuire per primo che il contagio della sifilide potesse avvenire per mezzo di microscopici germi, invisibili ad occhio nudo ma capace di infestare e replicarsi negli esseri viventi.

Un’intuizione eccezionale, in un’epoca dove ancora la medicina ufficiale era ligia ai rigidi insegnamenti di Galeno e Ippocrate, regredita per altro da secoli e secoli di oscurantismo religioso.
Fracastoro descrisse la sifilide le suo “Syphilis sive de morbo gallico” (Sifilide, ossia sul mal francese), dettagliandone minuziosamente la sintomatologia divisa in differenti stadi, e appuntando anche le sue teorie sul contagio, di origine patogena.

I rimedi per contrastare l’infezione che la medicina dell’epoca seppe sviluppare erano più dannosi che utili: s’intuì presto che impacchi di mercurio potevano uccidere il batterio abbastanza efficacemente, ma a prezzo di una severa intossicazione che, spesso, guariva il povero malcapitato dal morbo, ma l’accoppava poi avvelenato dal metallo.

Non fu disponibile un trattamento veramente efficace sino all'inizio del XX secolo, quando venne messa a punto l'arsfenamina.

La sifilide è una malattia molto subdola, dalla lunga incubazione, a decorso lento e cronico.

Si presenta in quattro fasi differenti, di crescente entità: primaria, secondaria, latente e terziaria.

Da una fase all’altra, specie dalla fase latente alla terziaria, possono passare anche molti anni, senza apparenti sintomi.

La prima fase, la primaria, è praticamente asintomatica: compare solo una piccola lesione cutanea (sifiloma) che indica l’entrata nel virus nel corpo ospite, e che solitamente si risolve in poche settimane, a volte anche senza particolari dolori o fastidi.

La fase secondaria, che avviene poche settimane dopo l’infezione, è la manifestazione clinica più evidente delle prime tre fasi: l’infezione del batterio può dare origine ad eruzioni cutanee di varia forma e dimensione, che solitamente ricoprono tutto il corpo, anche le mucose.

A volte, le macchie prendono la forma di veri e propri noduli, simili a bubboni.

La fase acuta si risolve tra le tre e le sei settimane, e raramente è fatale.

Dopo la fase acuta, il microbo viene attaccato dal sistema immunitario, che riesce più o meno a tenerlo sotto controllo, almeno limitando l’infezione.

La patologia entra così nella fase latente, asintomatica, che può durare anche diversi anni.

Tuttavia, l’infezione è ancora presente, e continua a fare danni.

L’ultimo stadio dell’infezione è la sifilide terziaria, che si presenta nelle classiche tre manifestazioni: sifilide gommosa, neurosifilide e sifilide cardiovascolare.

Tutte e tre le manifestazioni portano una serie di grandi problemi all’organismo dell’ospite: dalla formazione di granulomi diffusi in tutto il corpo all’alterazione del sistema nervoso centrale, con paresi e deliri psichiatrici.

I batteri e le patologie infettive
Sahachiro Hata, il medico giapponese che sintentizzò per primo la molecola dell'arsfenamina

Il Treponema pallidum fu isolato per la prima volta dai medici tedeschi Fritz Schaudinn e Erich Hoffmann, mentre nel 1098 il chimico giapponese Sahachiro Hata sintetizzò la molecola dell’arsfenamina, il primo farmaco chemioterapico prodotto dall’uomo, abbastanza fossico ma molto efficace nell’eradicare la sifilide.

Commercializzato con nome di Salvarsan provocava svariati e pesanti effetti collaterali, ma rimase il metodo di contrasto primario all’infezione almeno fino al 1943, quando venne definitivamente provato che la penicillina poteva debellare l’infezione anche con una singola dose.

Oggigiorno la sifilide continua a circolare nel mondo, ma è generalmente confinata nei paesi poveri o, in occidente e nei paesi industrializzati, in particolari fasce di popolazione che prediligono i rapporti promiscui, oppure omosessuali.

Non esiste ancora un vaccino efficace per la prevenzione della sifilide, ma l’uso del profilattico diminuisce di molto il rischio di contrarre l’infezione (non lo elimina, però).

Comunque sia, la potente benzilpenicillina è in grado di eradicare facilmente le infezioni precoci con una sola dose, mentre va somministrata per molti giorni in caso di infezioni tardive.

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